di Noemi Piva
“Quando mi guardi, sai, mi piacerebbe che gli occhi tuoi facessero come fanno due occhi che leggono: da sinistra a destra, da destra a sinistra – che mi leggessi, sai, mi piacerebbe” – Irene Paganucci
Vedere te (1322) è la storia di due anime indefinite che condividono un luogo indefinito per un periodo indefinito.
Le interpreti si fanno così portatrici di ruoli universali, che danno allo spettatore la libertà di proiettare su di essi identità figlie della propria interpretazione personale. L’incipit in Medias res le racconta complementari, l’una piena di fardelli di una storia sconosciuta e l’altra vuota, protesa verso il futuro in cerca di nuove trame da abitare.
Gradualmente il loro completarsi prende a sbiadire, e insieme la loro capacità di comunicare. Le parole deformate dall’alfabeto farfallino perdono via via di significato, acquistando musicalità indipendenti dal corpo. Dalla voce prende forma una conflittualità dalle sfumature ironiche che sfocia in un più esplicito uso del corpo, raccontando di una violenza difficilmente percepibile dall’esterno.
Le trasformazioni del rapporto vengono scandite dal cambio delle lenzuola, appuntamento al quale – nonostante tutto – non si può mancare.
Alla fine gli occhi si incontrano di nuovo e capiscono che il tempo a disposizione è finito, e sono pronti a vedere ancora, per ricominciare a leggere un corpo da sinistra a destra e da destra a sinistra, senza saltare nemmeno una parola.
Con leggerezza “Vedere te (1322)” vuole raccontare di tutti i collegamenti umani che si intersecano e complicano, raccontandosi e plasmandosi nel loro procedere nel tempo in forme differenti rispetto a quelle vere ed incontaminate rimaste silenziose e nascoste.