23 luglio 2019, ore 21:00

DATI TECNICI:
Regia: Peter Marcias
Durata: 100 min
Distribuito da: Cinecittà Luce
Anno di Produzione: 2018
Paese: Italia
Genere: Documentario
Uscita: 3 maggio 2018

TRAMA:

Una data che i sardi non dimenticano è quella del 1962. Anno in cui il Parlamento Italiano approvò il Piano di Rinascita per la Regione Sardegna. Finalmente, vennero poste in essere quelle misure legislative che cercarono di frenare l’emigrazione sarda e la sua crisi economica con interventi nella realtà agropastorale e investimenti sull’industrializzazione tardiva. Ma la Sardegna era veramente degna di tali aiuti? Si trovava veramente in uno stato di emergenza? E se le risposte fossero state affermative, quanto sarebbero stati ingenti i finanziamenti per l’isola? Insomma, quanto valeva in sporche ma benedette lire la salvezza del popolo sardo?

Al fine di favorire una maggiore comprensione delle problematiche isolane, un ente regionale incaricò il regista Fiorenzo Serra di realizzare un documentario che ne mostrasse l’arretratezza. Lo completò nel 1965 e gli diede il titolo di L’ultimo pugno di terra (da un’antica leggenda che vuole la Sardegna originata dall’ultima manciata di terra rimasta in mano a Dio al momento della Creazione).

Solo che il documentario non fu un documentario, come giustamente nota anche Piera Detassis. Andò oltre. Ebbe sì una forma realistica, da cinegiornale, ma non si volle privare del tutto dei frammenti di vita felici, dei festosi riti, di quell’accenno di modernizzazione e nel contempo dei miserabili drammi sociali che il vivere nei piccoli paesi sardi affrontava nel quotidiano. Il film si fece, dunque, ritratto amarissimo e imparziale di una grande ferita (che ancora oggi sanguina copiosamente) e di ciò che stava intorno a essa, nel bene e nel male. Nel 2008, L’ultimo pugno di terra viene restaurato e, dieci anni più tardi, è esso stesso al centro di un documentario: Uno sguardo alla terra di Peter Marcias. 
Pochi altri possono ambire a condividere con Serra l’etichetta di “documentaristi della Sardegna”. Pochi altri possono avere uno stesso sensibile e indagatore occhio di riguardo per la propria terra d’origine. Ancora meno sono quelli che si fanno vigili testimoni delle mutazioni e delle contrapposizioni generazionali sarde. Uno di questi è proprio Marcias che, aderendo in toto al suo stile (Silenzi e parole), si immerge integralmente in un oggetto reale per portare a galla “altro”. In questo caso, si tratta di un esercizio di stile e di sintesi in cui ci si sintonizza sul clima ottico, mentale e cinematografico di Serra per arrivare al clima ottico, mentale e cinematografico di chi condivide oggi il suo stesso mestiere.

Da una parte, quindi, abbiamo la storia intorno a L’ultimo pugno di terra. Quella che ci viene rivelata dalle fotografie (emblematica quella in cui Serra è seduto sulla cariredda, la tipica piccola sedia sarda, intento a filmare gli scorci paesaggistici) e da uno dei suoi consulenti: lo storico Manlio Brigaglia. Quella che racconta l’uomo davanti alla pressa Catozzo, intento a seguire l’aurea regola del non raccontare ciò che già si vede nelle immagini, ma sempre e solo aggiungere. E dall’altra l’estrapolazione degli elementi di quel documentario (il viaggio, la situazione femminile, la schiavitù lavorativa, la questione della terra e delle miniere) che vengono usati come spunti di riflessione o punti di contatto per discorrere con documentaristi di tutto il mondo (Vincenzo Marra, Brillante Mendoza, Wang Bing, José Luis Guerín) sull’implacabilità visiva di Serra e su una cosciente autoanalisi professionale.
Ne scaturisce una fitta rete di voci che affonda mani e occhi in quella Sardegna Anni Sessanta, ma che recupera le caratteristiche della sua filosofia artistico-lavorativa. L’ultimo pugno di terra diventa così un formidabile collante tra il vecchio e il nuovo, dimostrando che il cinema del passato può e deve essere visto per coglierne lo spirito del tempo. Meditazioni sul pedinamento documentaristico quasi zavattiano (che non a caso ne fu lo strapagato supervisore), sulla ricerca etnografica, sul cambiamento dello spettatore come fine ultimo del regista, acquistano la preziosa contemporeaneità politica, sociale, psicologica e, soprattutto, umana di un mestiere attualissimo.
A facilitare il tutto sono, senza dubbio, la regia di Marcias e il montaggio di Andrea Lotta, che concatenano immagini di luoghi e persone, sospingendoci prima nel cuore naturale dell’isola e poi lontanissimi da queste pietrose lande in agonia. Si arriva addirittura a una compenetrazione di suoni tra i due documentari, nei quali silenzi, sonorità come il doloroso lamento de sas atitadoras (le nere prefiche sarde) e le musiche di Franco Potenza si allungano nella rivisitazione odierna delle stesse locations. Uno sguardo alla terra diventa quindi un dietro le quinte, ma mai compiaciuto o celebrativo, su un cinema povero di mezzi, eppure altissimo nel taglio narrativo. Ai sardi apparirà doloroso, agli altri folgorante. Un confronto che dimostra come la poetica delle vecchie immagini della Sardegna non sia cambiata per chi quella terra la mangia ancora oggi per poter vivere. Mentre cambia invece l’occhio dietro la cinepresa che guarda e registra e il perchè guardi e registri. 

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